Corpus Christi - la recensione del film di Jan Kamasa finalista agli Oscar 2020 (2024)

Corpus Christi – Trama

Daniel (Bartosz Bielenia) ha un suo Corpus Christi: profilo addolorato ed emblematico, pelle pallida, indistinta, occhi azzurri acquatici, labbra in una parentesi arcuata, violacea, da icona sacra, pizzicate al lato dai denti, tormentate sempre a ridosso di una forte emozione, spesso poco prima di parlare rivolto alla sua platea di fedeli, con la saggezza che si addice ad un parroco navigato, saggezza inverosimile per un ragazzo scappato dal riformatorio.

E Daniel, in effetti, è sia l’uno che l’altro, è un ragazzaccio ed un finto prete.

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Un coetaneo del giovane, morto a causa di un suo pestaggio da sbruffone quando aveva solo qualche anno in meno, è il passato che lo porta dritto in riformatorio; qui il ragazzo si mescola con la disillusione arrabbiata dei reietti suoi compagni, barcamenandosi tra regole barbare del branco, tentativi di vendetta ai suoi danni ed uscite lavorative nell’alienante segheria vicina.

Trova passione ed un senso nelle parole del prete d’istituto, vorrebbe seguirne l’esempio ed entrare in seminario, ma gli viene detto che non sarà accettato perché la sua fedina penale è compromessa.

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Un rilascio vigilato lo restituisce all’esterno e qui, invece che presentarsi diligentemente in segheria, complice un costume da sacerdote recuperato in una serata di sbornie e sfrenatezze per festeggiare l’improvvisa, temporanea libertà, si ritrova ad improvvisarsi parroco in un paesino ferito da un lutto collettivo, disgrazia che ha chiuso quel branco di case in un’ossessione dolorosa, in un rancore bigotto.

Qui Daniel diventa Padre Tomasz ed inizia il sua noviziato speciale, irregolare, che scardina, sorprende, accoglie e trasforma le energie di tutte le anime in cui si imbatte, dimostrando agli altri e a se stesso che Dio è ovunque e che il Corpus Christi va amato nella sua totale illuminante imperfezione.

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Corpus Christi – Recensione

Tratto da una storia vera o forse no, scritta dal giornalista Mateusz Pacewicz, riadattata ad altro spessore dal regista Jan Kamasa (firma del recente The Hater), Corpus Christi è stato presentato nel 2019 alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia, riscuotendo attenzione e successo ed è stato poi candidato agli Oscar 2020 come miglior film straniero.

E’ un dramma personale ed universale, che alterna serietà, segno ed ironia, un film di formazione e dimostrazione spirituale, una commedia tragica intrisa di simbolismo evidente, che ha il coraggio di sfidare l’ostinata, feroce, devozione religiosa della terra polacca, disegnandole addosso il dubbio, se non la certezza, di essere in difetto, di marcire da pregiudicante, di limitare la verità a dogmi lontani dal sano attraversamento delle cose.

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Daniel è un macchiato dal peccato, un bisognoso di accettazione, di amore, di quella cosa così divina e lontana che si chiama perdono e che gli uomini escludono per se stessi, destinandola solo a Dio, auto-dichiarandosi incapaci di metterla in atto. Ma l’azione del perdonare, come esplicitato in Corpus Christi, non è altro che un’altra declinazione dell’amore; non ha a che fare con l’(impossibile) oblio del male subito, ma con l’amare chi o ciò che resta, piuttosto che odiare chi o ciò che è tolto.

Daniel è un angelo caduto, impedito nel tornare a volare con i suoi simili, camuffato per ottenere sommaria accettazione, che diventa perno di se stesso e dei cittadini capitatigli in sorte, antidoto suo malgrado alla solitudine della mente, all’isolamento del cattivo, al logorio del senso di colpa che secoli di storia, teologica e non, hanno cucito perfettamente addosso alla Polonia.

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Dio è ovunque dice Daniel nei panni talari di Padre Tomasz, il silenzio è già preghiera, la morte non accade veramente, la rassegnazione non dovrebbe vincerci, dei sentimenti non ci si dovrebbe mai vergognare (forse neanche di quelli fisici di un prete) e soprattutto è inutile trascorrere la vita puntando il dito contro qualcuno, perché non c’è niente che più allontana dall’Altissimo.

Non che tutto sia facile, non che tutti siano convinti, non che le cose siano risolte: Gesù Cristo è morto, non si è salvato; allo stesso modo il piccolo paese di Daniel non si redime dal proprio odio in toto, l’amore trovato ha sempre condizioni di compromesso, i sogni inadatti non ottengono sfogo definitivo.

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Così il finto prete non ha diritto ad un vero addio consolatorio, ma ad una spoliazione plateale che ne riconosca la natura macchiata, pur in buona fede, mentre il riformatorio maledetto, la minaccia, la rivendicazione, la violenza da cui scappare, chiedono il conto in un finale, doloroso, enigmatico, sospeso tra la salvezza dall’ultima, pur necessaria, dannazione, e la ricaduta dell’angelo luciferino scacciato da Dio.

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“Non tu” gli urla qualcuno, forse un novello Giuda, che prima tradisce il compagno rivelando la sua identità, poi lo trae via dalla carneficina annunciata quando ne vede il pericoloso, irrimediabile andazzo; e il novello Daniel-Cristo viene scaraventato via da un incendio in progress, un inferno paradigmatico, di cui la macchina da presa restituisce solo il volto sanguinante, spaesato, in bilico, ad un niente dal collasso, un volto che da quelle rovine, a fatica, forse si allontana, o forse riprecipita.

Come fosse il primo di tanta recidiva umanità che si arrampica male e caparbia sulla coda della luce.

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Verde è il colore dominante nella fotografia di Corpus Christi, un riverbero alieno, dalla toga ai vetri di una finestra, dalla vegetazione alle tende di un’abitazione, il verde che mistifica e sacralizza, che plastifica i contorni, esaspera le espressioni, stigmatizza statue, icone e facce, restituendoci una tridimensionalità più marcata, ingombrante ed ammalata.

Volti, spazi, paesaggi naturali circostanti si trasformano in luoghi esemplari, totem di altro, parabole ammonitive; in essi si respira santità anche quando non si dovrebbe, mentre l’atmosfera è sferzata e spiazzata dall’ironia intrinseca delle singole situazioni, naturalmente comiche, ma volutamente mantenute ad un livello di severa naturalezza in cui si esalta al contempo paradosso umoristico, gravità e commozione.

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Corpus Christi – Cast

Cast in ottima sinergia, in cui enorme spazio hanno i piani di ascolto reciproci tra personaggi tutti significativamente scolpiti; protagonista assoluto spicca Bartosz Bielenia, interprete impressivo, fragile, umorale ed empatico, dallo sguardo liquido ed irresistibile, frastornato come solo certi occhi alla Trainspotting ricordano, arrendevole ed inquieto, portatore insano di una fede della sopravvivenza, di un bisogno catartico di uno e di tutti, contraddittorio e non risolto, conflittuale fino all’ultimo, sul punto di perdersi, rinunciare, scegliere il buio e non la luce, gettare le armi e non accettare la sfida.

Lui è l’altra faccia del Signore, il martire dell’eucarestia, il corpo morto e vivo insieme, l’attraversamento del danno, il costo della riabilitazione, lo slancio imperfetto verso il cielo e soprattutto l’allarme costante di vedere sconfessato il proprio Dio, così come lo si è immaginato per darsi forza.

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Un “Corpus Christi” da studiare come specchio di quanto la grazia e la verità possano cadere lontano da dove risiede il giudizio (condiviso), ed avere forme e modi per manifestarsi in nostro aiuto profondamente diversi ed irrisolti rispetto a quelli che immaginiamo normalmente: per la iper-restrittiva Polonia odierna questo non è cosa da poco.

Corpus Christi – Trailer

Pyndaro

Cosasofare:osservare,immaginare,collegare,girarel’angoloCosanonsofare:smetterediscrivereCosamangio:interpunzionietuttal’arteingenereCosaamo:iquadrichenoncerchiano,eviceversa.Cosapenso:ilcinemagiocaconleimmagini;ioconleparole.Dovevamoincontrarciprimaopoi.

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